mercoledì 25 marzo 2009

Il mondo a gambe all’aria


Una volta di più si dimostra come il procedere del tempo, del progresso e della modernità, siano oggetto di critica severa e di palese tradizionalismo immobilista da parte, sovente, dei più anziani e di taluni poteri morali interessati, che stentano, ostacolano e non vogliono né capire, né comprendere l’evoluzione dei tempi.

Il poemetto dell’abate Giacomo Antonio Turrati, scritto nel lontano 1824, nel pieno del regime di restaurazione Stato-Chiesa post- napoleonico e tradotto qui, per estratto, dall’antico dialetto roveretano, adattato a quello ronconese (un tantino ostico e da leggersi diligentemente) enuncia in modo arcigno ma anche sconsolatamente ostile, i vizi della società di allora, recriminando sui mutamenti del consorzio umano come inauditi peccati mortali.
Ne tracciamo un breve, nerissimo profilo:
- negli anni trenta del 1800, si seguono mode bizzarre, dove è difficile distinguere l’uomo dalla donna: gli uomini portano i tacchi alti e il bustino e le donne vanno con le braccia nude e vestite da maschera - i cibi genuini sono relegati in soffitta – si beve birra tedesca e, terribile a dirsi, rum della Giamaica – tutti vogliono farsi più grandi di quello che sono (pu grant el cul de col che l’èi la braga) – si piantano dappertutto debiti correndo il rischio di andare in prigione – se il prossimo crepa di fame non interessa a nessuno – odio, vendette, persecuzioni, malafede – le donne usano discorsi da facchini di porto e gli uomini sono come belve, pronte a calare sulle giovani, prede indifese e, inaudito, è la terra che gira attorno al sole e non viceversa.
Nella parte centrale del poemetto didascalico, l’autore lamenta inoltre (non prendendosela naturalmente con il padreterno) “un tempo meteo strano, con freddo e caldo fuori stagione, lunghi periodi siccitosi e le stravaganze di cicli stagionali che non vogliono mettere giudizio. Primavere cancellate, estati brevi e torride, temporali e piogge a non finire perché le belle stagioni, ordinate e precise, se ne sono ormai andate”
Allora, diciamo noi, qual è la differenza dalle lagnose geremiadi di adesso, rispetto a centottantanni fa? A quanto appare, tutto come allora.
E non è un continuo piagnisteo oggidì per il mutamento dei costumi? O tèmpora! o mòres! - o tempi! o costumi! (Cicerone, 106 a.C.). Nelle varie epoche si dimostra come tali cicliche “lamentazioni” siano per lo più inconsistenti, immaginarie e infondate.

Titolo originale:”El mondo dal cul en su” - dato a Venezia nell’anno 1824 e recitato presso la celebre “Accademia degli Agiati” di Rovereto.


El mónt l’è na col cul su drìt
(Il mondo e andato a gambe all’aria)

(estratto dal 14° al 63° paragrafo)


Adès i è tep che ognun pensa par sì
E se ‘l pròsim crepa de fam
Co ölèl dir? Se sèghita l’istès
Pur da far i sö ‘nterès:
Sa ‘l strangóla, se dròpa ogni ingàn,
Anzi: ‘l pù brao, ‘l pù famos l’è quèl
Che riva a strangolàr el so fradèl.

Né ‘n giro, né! né al’ostarìa a scoltàr
No sentiré, da coschì e da col’àlter,
Che ‘ntorno a fonne e a sporcarìe ciaciaràr
Tat che sti asanón, a le putèle
I ghe tènd dré pù che ‘l lof ale agnèle

Aca chil che è ‘n mìgol galantòm,
A vedér che adès ghè tut svoltolà,
Ghe par che ‘l mónt col cul su drìt sie nà.


Tolé par mà le scienze e vedaré
Quate rivoluzión che le à patì
E i parér de ancö no i gataré
Squasi nigun l’istès a quij de ‘n dì.

Se voléva na olta che ‘l sol girès
Dì e nòt ‘ntorno ala tèra
E che la tèra sèmper ferma stès,
Ma tut quat al rovèrs adès se völ:
Che la tèra, dì e nòt ‘ntorno vaghe
E che,… ma se pöl?, ‘l sol fermo ‘l staghe

E quac’ svoltolaméc’ e rivoluzion
No àla fat la medicina?
E quate opinión s’à vist, contra opinión
E, ‘n sistema, butàr col’àlter en ruina?

Ma, ala fin ste sapientón i è compatì
Öh!... ma vèi i è guidè dala rasón
Ma col che fa restàr pù sbalordì
L’è che, ‘n mèz ala nòsa religión,
Ghè na pila de set che ormai crèz
‘N de ste rusunéte e vöde opinión

Oh! coschì sì che ‘l fa strasicolàr
E ‘l sanch ‘n le vene ‘l fa ‘nglaciàr.

Pensarèsef valtre adès che mì avèse sugà
Su ‘l sach dale rasón numa par, en pit,
Caciàrve ‘ndal có la pura verità:
Cola che dalbón ‘l mónt l’è nà col cul su drìt?

Co ghe völ amó de pù par far capir
Col che nfin adès ò volèst dir?
Ma se ‘l mónt col cul su drìt l’è,
Vardóm almen de no narghe dré.
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mercoledì 4 marzo 2009

L'Autonomia minacciata


Dopo oltre settecento anni di dominio straniero, sudditi di nobili, di Chiesa e degli Asburgo, ritenuti sprezzantemente ‘welsch’ dal mondo tedesco e ‘crucchi o tognì ’ da quello italiano, terra di conquista e d’invasione da parte di francesi e bavaresi, i trentini hanno potuto ottenere una loro agognata autonomia e con essa la dignità di sentirsi cittadini di una comunità in grado di autoamministrarsi, responsabile del proprio ordinato sviluppo socio-economico.


Dopo migliaia e migliaia i morti per Casa d’Austria prima e migliaia finiti deportati in Italia, nel 1918, alla fine delle ostilità poi (alla faccia di ‘suolo e popolo redento’), nel 1946, con il trattato Degasperi-Gruber, la acquisizione della autonomia costituì il riscatto di una popolazione che ben poco aveva da spartire con la italica mentalità. Per secoli come iloti, oberati di tasse dal principato vescovile e dal potere, (lo testimoniano le sollevazioni popolari contro l’esosità dei gravami e le conseguenti: ‘guerra rustica’ del 1525, guerra delle noci, la sollevazione del Dazio di Tempesta), da funzionari imperiali prima e da commissari savoiardi e fascisti poi, l’affrancamento di una autonomia, nell’ambito di trattative esasperanti e mai definitivamente risolte, ridiede dignità ad un popolo fino ad allora obbligato, per sopravvivere, ad una disperante emigrazione. Il Trentino conta, ancora oggi, più conterranei ex emigranti, altrove trapiantati, di quanti ne risiedano tuttora sul territorio provinciale.
La massiccia presenza e invadenza della burocrazia non indigena non è riuscita ad intaccare definitivamente l’atavico spirito locale, anche se molto è ormai andato perduto. Non siamo stati, nostro malgrado, lentamente meridionalizzati e non stiamo purtroppo scivolando sempre di più verso una italica forma mentis?
Comunque la laboriosità, i principi di dignità, di onestà, di cultura e di buon governo, hanno portato questa nostra terra ad essere invidiata, specie da chi, nel Belpaese, troppo spesso ha trascurato autodisciplina, sobrietà e parsimonia. Ora i lacchè leghisti, proprio loro, portabandiera delle autonomie regionali, si fanno ambasciatori di rivendicazioni che pensavamo, in virtù della Costituzione, non dovessero più essere messe in discussione. E il ‘timoniere’ sta furbescamente zitto, manda avanti la Lega, la meno accreditata a farsi portavoce di simili corbellerie, con l’intenzione di violare queste agognate legittime conquiste.
Non è in discussione la solidarietà nazionale in tempi di recessione, se ne parli ma non si tentino unilaterali colpi di mano, chiedendo compartecipazione e sacrifici i quali sappiamo, tra l’altro che, pur se copiosamente elargiti fin dal 1948, non sono stati in grado di produrre cambiamenti significativi nel Paese.
Ma l’autonomia non era il leitmotiv, il cavallo di battaglia della Lega, la quale a suo tempo andava sbracciandosi al grido di “Roma ladrona”?
Spero che i trentini tutti siano pienamente coscienti di ciò che la conquista della autonomia di questa terra è costata in secoli di attese, di umiliazioni e di sacrifici e avendola ormai idealmente interiorizzata, sappiano esprimere fino in fondo la loro concreta indignazione, qualora le congetture di violazione dovessero concretizzarsi in stupro istituzionale.
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