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La leggenda del Silvanello di “Val”
Nei paesi delle valli trentine, molte sono le leggende che, narrate, facevano stare con il fiato sospeso. I nonni, durante i lunghi “filò” invernali nelle stalle raccontavano, anche più volte, le stesse fiabe, con riferimento a luoghi e personaggi conosciuti, creando spasmodica attesa e una magica atmosfera.
Fra le tante, una sorprendeva sempre, vuoi perché era accaduto lì, vicino al paese, vuoi perché vi era implicata gente degli Amistadi “S-ciòp”, a quei tempi ancora molto conosciuta.
Molti, moltissimi anni fa, quando ancora non vi erano strade nelle nostre valli, ma solo sentieri, e la gente nasceva e moriva senza essere mai uscita dal proprio paese; quando ancora diavoli e streghe terrorizzavano la vita contadina, e i defunti familiari, a detta della Chiesa di allora, sarebbero potuti venire a graffiare le piante dei piedi dei parenti, mentre si trovavano a letto, qualora questi non avessero condotta una vita integerrima o non avessero ottemperato a tutto ciò che la religione imponeva loro…
In quel tempo a Roncone, nelle sperdute valli della “Judicaria Summa Laganensis”, viveva Lavinia, una bella fanciulla con lunghi capelli neri, che le formavano una stupenda treccia raccolta intorno al capo. Era una ragazza sempre triste; la vita non era stata tenera con lei. Il papà e la mamma, ancora molto giovani, erano morti, cadendo in un burrone in alta montagna, dove si erano recati a raccogliere fieno per le loro due mucche e per la capra, poiché la stagione siccitosa aveva bruciato il secondo raccolto di erba e le bestie, durante l’inverno, avrebbero rischiato la fame.
Dal paese, il bestiame era stato trasferito in località “Val”, in quota poco oltre l'imbocco della Val di Bondone, dove la famiglia possedeva un maso con prati e boschi.
Lavinia, rimasta sola con un fratellino dodicenne da allevare, dovette imparare presto a rigovernare il bestiame, a mungere, tagliare il fieno, procurare legna, fare burro e formaggio e tenere la casa. Ogni mattina, ancora a notte fonda, essa si recava dal paese al fienile di “Val” a governare le sue bestie, al lume di una candela di cera. Non si fidava a restare a dormire da sola in quel posto isolato, anche perché, certi rumori strani, come dei lamenti, che aveva uditi una notte di temporale, l’avevano parecchio spaventata.
Quando le mucche partorirono, le sue incombenze ad accudire alla stalla, a lavorare il latte, le prendevano tanto tempo e impegno. Era disperata, ma…una mattina, aprendo la cascina, si accorse che qualcuno era stato lì.…vide la caldaia del latte con i sieri sopra il fuoco appena spento, il formaggio sul tavolaccio e il burro nell’acqua fresca, la ricotta messa a scolare sotto al camino. Senza parole, si chiese chi potesse essere stato così gentile e bravo da lasciare tutto a posto, pulito, ordinato.
Le mucche munte e rigovernate, i vitellini nutriti, la stalla in ordine e pulizia impeccabili. Lavinia notò unicamente un’impronta di piede che pareva un grosso zoccolo di caprone e questo la preoccupò molto. Il pensiero corse ad una storia che papà le aveva raccontato molto tempo prima.
“Nel bosco vicino”, le disse il babbo, “vivono i ‘Salvanéi’, i Silvanelli, figli di Silvano, il dio delle selve e della campagna. Sono bravi e tranquilli ma molto bizzosi e suscettibili; talvolta sono dispettosi e non bisogna irritarli; combinano scherzi spiritosi ma, nelle notti di luna piena è meglio girare loro alla larga, poiché si nutrono di carne viva e non vanno tanto per il sottile con nessuno. Con le loro lunghe gambe da capra, percorrono grandi distanze senza essere notati e vivono, sognando il bacio di una qualche fanciulla. Brutti, barbuti, irsuti e puzzolenti come sono, nessuna vorrebbe baciarli”, concludeva ridendo il papà.
Ormai ogni giorno la storia si ripeteva; puntualmente, alle cinque del mattino, lei trovava le mucche munte, formaggio e burro lavorati di fresco, i sieri ancora caldi nella caldaia e queste grandi impronte, qua e là nella terra umida, intorno al cascinale e… uno strano odore misto di zolfo e di selvatico, assieme pungente e inquietante.
“E se fosse proprio il Silvanello? Uno di quelli buoni che ha deciso di aiutarmi? Che si sia invaghito di me e me lo voglia dimostrare in questo modo?” L’idea la lusingò ma la terrorizzò allo stesso tempo, pensando a quanto brutti erano i Silvanelli descrittigli dal padre. “Se si presenta che gli dico?” E immaginò subito due piedi di caprone, una barba ispida e un ghigno ansioso di esternarle il proprio ardore amoroso. Tutte queste considerazioni non fecero che accrescere in lei timori e curiosità.Voleva scoprire chi era colui che, a notte fonda, si occupava delle sue mucche e dei suoi affanni.
Non ne parlò con anima viva, non le avrebbero creduto, fantasie di ragazza, sogni.
Decise allora, complice il fratellino, di fermarsi una notte a dormire sul fienile soprastante la stalla. Fecero insieme una tana dentro al mucchio del fieno e vi si acquattarono, con il cuore in gola e il fiato sospeso. Di sicuro non chiusero occhio; lei più volte pentendosi del guaio nel quale si erano cacciati.
“E se stanotte non venisse? e, se si trattasse invece di qualche angelo delle tenebre che si diverte a spese di due poveri ragazzi indifesi?” Con queste spaventose fantasticherie trascorsero alcune ore della notte. Le mucche nella sottostante stalla ruminavano tranquille e la capra scuoteva, di tanto in tanto, il campanello agganciato alla cannabula di legno appesa al collo.
Ad un certo punto, Lavinia udì le mucche alzarsi in piedi ed iniziare a nutrirsi alla mangiatoia e il fuoco crepitare nel focolare. Si girò verso il fratellino ma, questi si era pesantemente addormentato e lei si sentì ancora più sola. Adesso distingueva chiaramente il rumore del latte munto cadere a lunghi spruzzi nell’apposito secchio in legno, con un soffice tonfo smorzato nella schiuma, un sim! sum! sim! sum! cadenzato come una musica, la quale sembrava la invitasse a lasciarsi andare ad un dolce, ipnotico sonno.
Non senza sforzo si alzò e uscì dal tunnel di fieno, avvicinandosi cautamente alla feritoia sul pavimento, da dove, ogni giorno, essa calava la razione di fieno occorrente nella sottostante stalla, e sdraiata sul pavimento, infilò la testa nella feritoia tentando, nell’oscurità, di scoprire il segreto di quelle misteriose visite notturne.
Tutt’ad un tratto si fece un silenzio irreale: le bestie non si muovevano più, tutto era fermo come sospeso e anche il cuore di Lavinia sembrava non battere più. Nella penombra intravvide una figura velocissima che, senza alcun rumore, si avvicinò alla fessura dalla quale essa osservava ciò che stava accadendo nella stalla. Nel silenzio allucinante, si levò verso di lei un urlo, un ululato, che la colpì come uno schiaffo in pieno viso: “Se tu avessi atteso ancora una sera, ti avrei insegnato con i sieri a far la cera”.
A quel punto la stalla si illuminò con una lama di luce bluastra e Lavinia, paralizzata dal terrore, vide il “Salvanèl” in tutta la sua figura: la faccia ispida, esprimeva una grande delusione, come se avesse subito un tradimento; vide, dalla pancia in giu, il suo abito di pelo di capra e…i piedi… due possenti zampe di caprone.
Nello stesso istante la luce accecante scomparve e nell’aria rimase un vago odore di zolfo e di resina bruciata. Tutto tornò alla normalità ma, da allora nessuno più riuscì a scoprire la formula con la quale fare la cera, con i sieri del latte.