mercoledì 28 maggio 2008

Un po’ di lungimiranza


Si sta assistendo, di questi tempi, ad una vera e propria caccia al Rom e all’ estracomunitario, la quale pare assumenere, in alcuni casi, i toni persecutori del pogrom, con decine di migliaia di arresti ed espulsioni di massa.
Il nuovo sindaco di Roma, per non smentire il suo indirizzo destrorso, con il preannuncio della espulsione di ventimila persone solo nella capitale, da il “la” a tolleranza zero ed al suo ‘modus operandi’ futuro.

Nessun dubbio che, chi delinque vada severamente punito, anche con la espulsione; non è però accettabile che sia fatta di ogni erba un fascio.
Qualche giorno fa, girando con un amico in città, nei pressi di una farmacia, siamo rimasti esterefatti dal comportamento di un signore (sic!) in camice bianco il quale, marzialmente mani ai fianchi, apostrofò duramente un ragazzo nero ad una decina di metri da lui gridandogli: “Te ne vai si o nò? ti devo prendere a pedate?”. Il ragazzo, visibilmente avvilito e amareggiato, si girò lentamente, andandosene.
Sorpresi, non siamo stati in grado di prendere alcuna iniziativa ed io, come ex emigrante e come cittadino di questo Paese mi sono vergognato per non avere almeno chiesto il perché di un comportamento così volgare e incivile. Che cos’è se non il razzismo da una posizione di forza contro l’impotenza a difendersi?
Come è obliata in fretta la storia di una comunità. Da tempo immemore, fino agli anni sessanta del secolo decorso, l’emigrazione locale (e italiana in genere) è spesso stata costituita da quasi degli straccioni fuggiti dalla fame. La gente trentina conta “oggi nel mondo, un numero di discendenti più o meno uguale a quello dei residenti in provincia”; già tutto rimosso dalla memoria?
È storia nota quella della discriminazione non solo razziale; penso alle retribuzioni da fame che investono il fenomeno del lavoro nero. Quanti sventurati figli di nessuno cadono spesso preda di gente satolla di ogni ben di dio, buoni cristiani praticanti e moderni negrieri i quali, oltre ad angariare il senza tetto, lo remunerano con un pugno di fave. E tutto ciò a fronte della “Dichiarazione dell’O.N.U. sui diritti umani del 1948”, art.1) “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti … e dalla Costituzione repubblicana – art. 2) La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo .- omissis – tutti sono uguali … senza distinzione di razza, di sesso, di religione, di lingua, di opinioni politiche e di condizioni sociali …
È inoltre noto come le aziende, in quasi tutte le attività non possano ormai più fare a meno degli immigrati.
Tutto il consorzio civile è destinato a trasformarsi e ad affrontare continuamente le nuove realtà, sulla base degli inevitabili mutamenti che le investono lungo il corso della storia.
Più coraggio, più realismo e lungimiranza dunque; l’imprescindibilià degli eventi umani e l’evoluzione dei tempi lo impongono.
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mercoledì 5 marzo 2008

Battaglie istituzionali di ieri e di oggi


È consuetudine antica, ancorché deplorabile, la lite parlamentare, oggi comunemente e a sproposito denominata ‘battaglia’; succede dappertutto dove esista un minimo di democrazia e di libertà di parola. Nel nostro Paese, dove nessuno molla la ‘carega’ volentieri, fra le poche rinuncie a candidarsi alle prossime elezioni nazionali, vuoi per ‘precedenti’, vuoi per esclusione forzata, una di tali rinuncie mi è parsa particolarmente significativa, quasi drammatica: un parlamentare della passata opposizione fu investito, nel corso di una seduta, da pesantissime contumelie da parte dei suoi stessi colleghi di partito, per aver assunto posizioni autonome, vituperi tali da farlo ‘mancare’ fra i sacri banchi del Governo; egli, ritirandosi, ha dichiarato di non voler più ripetere simili esperienze.

In tempi a noi vicinissimi, in aula se ne sono viste di tutti i colori, dal nodo scorsoio agli incontri di pugilato, a pesanti offese, talvolta insensate.
Se andiamo a vedere precedenti di liti parlamentari furibonde, è emblematico ciò che successe a ‘fin de siècle, anni 1894/95’ , durante le giornate incandescenti degli scandali della Banca di Roma e le pazze spese sostenute dallo Stato per festeggiare le nozze d’argento di re Umberto II°, detto il “buono”, a fronte della estrema povertà del popolo, soprattutto al Sud e nel Nord-est.
“L’Asino”, giornale di una opposizione che, in certi momenti non andava tanto per il sottile, nonostante la perigliosità dei tempi, dopo la discussione sugli scandali, tenuta durante una seduta parlamentare, riassume gli elementi e gli epiteti, scambiatisi reciprocamente in aula, con un ‘edificante’, quanto graffiante sonetto:
Porco, carogna, lurido maiale,
Ribaldo, ladro, cane, lazzarone,
Sporco ruffian, facchino ed animale
Canaglia, infame, vile, mascalzone
Sudicio libertin, uomo bestiale,
Furfante, truffator, sconcio, lenone
Anima abbietta, mentitor triviale
Raggirator, brigante,villanzone
Falsario, basso, astuto, ciurmadore
Ipocrita, vigliacco, spudorato
Assassino, cretin, calunniatore
Mantenuto, mezzano, malcreato
Parricida, incestuoso, grassatore
Avanzo di galera … e deputato

Allegri dunque, succedeva pure allora; anche se la lirica era un po’ paradossale, rendeva comunque bene l’idea del clima parlamentare del tempo. D’altro canto, la ricchezza di vocaboli della lingua italiana permetteva e permette questo ed altro.
Allora la faccenda si concluse precariamente con il vindice attentato mortale al re, da parte dell’anarchico Bresci, venuto dall’America dov’era fuoriuscito.
Vi è da sperare che i nostri “augusti e litigiosi sovrani” del Governo a venire non ne combinino di troppo grosse; dietro l’angolo c’è sempre qualche ‘anarchico’ che, dal suo punto di vista, vorrebbe fare ‘giustizia’.
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martedì 4 marzo 2008

Flop Sanremo e gli insulti del signor Baudo Pippo


È da breve passata la ‘bufera’ sollevata al festival della canzone italiana, il quale mai ha avuta una audience complessiva tanto bassa, con share di ascolto irrisorie, al limite di un qualsiasi ordinario show. Io non ho seguito; sbirciando però distrattamente sui giornali ho dovuto constatare una volta di più che, pur non dovendosi meravigliare più di nulla, sono rimasto allibito quando ho letto con quale impudenza il presentatore, furente per l’andamento degli ascolti, ha affermato: “…per creare audience, litighiamo, sputiamoci in faccia, così fottiamo il pubblico, lo imbarbariamo e avremo un’Italia di merda…” come se i destini d’Italia dovessero dipendere dai festival del signor Baudo; linguaggio riprovevole e sboccato a parte, quale ridicola presunzione; non si illuda, con gli “sputi in faccia” non si fa audience nemmeno in patria.

Sono cinquanta milioni gli italiani, (così come a me, cittadino di questo ‘strano’ Paese) che del signor Baudo e del ‘suo’ festival non s’interessano o lo fanno sempre meno, impipandosene di una così petulante boria; non ci si può però non sentire offesi da una simile tacotanza e insolenza.
Gli epiteti rivolti a chi non ha seguito le serate canore, dovrebbero essere rispediti al mittente, con la raccomandazione di cambiare professione al più presto, per incompetenza e inidoneità; dalla sua vita in RAI che cosa ha appreso se, per incapacità e intolleranza, insulta coloro che dei festivai, di canzonette e di vacue frivolezze ne hanno ormai piene le tasche?
Altri sono purtroppo i problemi nazionali che ci sono sgranati, giorno dopo giorno, dai
media. Ad un giornalista che si chiedeva se Sanremo ha ancora un senso, il Baudo, divampando, rispose: “Lei è un imbecille!” per poi ripiegare, a scusa, su una emblematica quanto puerile espressione di italico vittimismo: “…siamo assediati!…” ha detto. Poverini, ma da chi? Ditecelo, che poi ci pensa la mamma a castigare questi cattivoni.. ...
Si sono invece semplicemente appiattiti come è successo ad altri programmi, questa è la realtà.- Un assedio ha tutt’altri connotati, che non sono certo quelli del mare di fiori che fa da cornice a Sanremo.
Una nota ‘disavventura’ giudiziaria avrebbe dovuto suggerirgli, a suo tempo, di ‘mollare’, ma, appunto perchè siamo nell’ Italia da lui preconizzata, egli è ancora lì che pontifica. Nelle scelte della organizzazione di costosissimi festival come di altri programmi di rilievo, dovrebbe essere maggiormente coinvolto il pubblico, senza che i ‘soloni’ in RAI insultino ed offendano chichessia. Il versamento del canone serve, a quanto pare, a pagare anche le varie ingiurie e contumelie.
Mutano i tempi ed i gusti; le giovani generazioni si beano della massiccia diffusione della musica, attraverso la sempre più sofisticata tecnologia; possibile che, incanutendo in RAI, qualcuno non percepisca queste avvisaglie?
Vi è da sperare che, bigiare i baudi ed i chiambretti, sia segno di una maggiore sobrietà e maturità critica dei miei connazionali.
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lunedì 21 gennaio 2008

Politica e discredito delle istituzioni

Sfiducia e apatia nella politica e nelle istituzioni in continua discesa. Il sondaggio Eurispes ha resi noti gli ultimi dati della ricerca riguardanti il 2007, da dove appare sempre più chiaro che la fiducia nelle istituzioni portanti del Paese, sono date “in calo progressivo e costante”. Eurispes non cita le ragioni le quali non possono essere che: la conflittualità fra i partiti, la precarietà dei Governi, i reiterati ricatti di esigue minoranze che ne minano la stabilità, il disimpegno politico di parte delle nuove generazioni, le indebite interferenze d’oltre Tevere, gli scandali legati all’immondezzaio di Napoli, la criminalità, organizzata e non, l’insicurezza dei cittadini, la precarietà del posto di lavoro, la sommersione del “made in China”, per fermarci alle più note.

“Meno della metà degli italiani si fida di scuola, magistratura e Chiesa: quest’ultima, fra le istituzioni non politiche, scende sotto il cinquanta per cento, perdendo dieci punti percentuali rispetto al 2007. In netto calo Governo e Parlamento.”
È un quadro sconfortante che prelude a scenari politicamente cupi. A ciò si aggiunge lo scarso senso morale verso le istituzioni con riguardo all’evasione fiscale, il collo di bottiglia di crediti e debiti, il costo della vita, la povertà incipiente che si espande a macchia di leopardo, il calo di civismo e l’affermarsi costante dell’ ”ego”.
A proposito di tasse, (qualcuno, con precedenti responsabilità di governo, ne ha fatto un cavallo di battaglia) che dire della grassazione tutt’ora persistente, compiuta da talune categorie (nel commercio, nel turismo, nella ristorazione, nelle libere professioni, ecc.) con l’entrata in circolazione dell’euro (senza alcun controllo delle istituzioni). Abituati ad evadere, non sempre parzialmente, oggi urlano allo scandalo delle tasse elevate, quando proprio da questi comportamenti deriva la responsabilità per l’impoverimento di milioni di famiglie. I maggiori oneri fiscali gravano, ora come in passato, sul lavoro dipendente e sulle pensioni, ai quali le ritenute sono alla fonte e nulla sfugge al gravame.
Come potrebbero essere definiti gli evasori i quali, oltre a derubare alla collettività il denaro che sacrosantamente spetta a questa per far fronte alle necessità dello Stato, per perequare le tasse fra tutti i cittadini e abbattere sul serio il prelievo fiscale? Come potrebbero essere etichettati costoro i quali fruiscono di tutti i servizi della comunità (sanità - scuole di ogni ordine - strade - sicurezza - Giustizia - Parlamento – Regioni – Provincie - Comuni, ecc.) a spalle di chi le tasse le paga? Non dovrebbero scattare per costoro una serie di reati quali il furto, l’appropriazione indebita, l’associazione a delinquere, occultamento di beni della comunità, inosservanza grave di precise norme giuridico/finanziarie, tali da far finire finalmente qualcuno in gattabuia? Nò! la legalità è il diritto dei poveri e in prigione va colui che ruba la mela per la madre ammalata ma non codesti mariuoli, i quali sono spesso circondati da nugoli di legulei che li …difendono…
Lo Stato dovrebbe educare, attraverso le scuole e i mass-media, con programmi che trasfondano ad ognuno, ‘in primis’ ai giovani, questi intrasgrebili doveri civili. A quanto pare invece conta di più imbonire con “L’isola dei famosi” o con “Il grande fratello”; con questi motori, evoluzione, senso civico e solidarietà fanno passi da gigante. Non per nulla figuriamo come Paese indecente.
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domenica 13 gennaio 2008

La fàola dal “Salvanèl da Val”

Ndai paes dale val dal Trentin, le era amó tate le legènde che, contàde su, le ne fava star lì col fla sospés. I noni, dré ai filò da steàgn ndale stale de invèrn i ne fava scoltàr magare aca tate olte la stèsa fàola, ndo che i ghe tiràva tèr sìti e set de famèie amó cugnesùde lì ndal paes e, così tì te sére lì co la boca par aria, ‘ncantà a scoltàrle.
Ntrà le tate, una la ne piaséva de pu de tute, parchè, i ne diséva, i era laór che era sucès lì apè al paes e parchè i era laór sucès ala famèia dij Amistadi “S-ciòp” che, nde col tep lì, l’era amó 'n bèl mìgol cugnesùda.

La fàola dal “Salvanèl da Val”
Tac’ ma tac’ agn fa, canche no ghera gnamó gna machine e gna vie ndale nòse val, ma ghera numa sentér e la set la naséva e la morìva senza mai èser nada fò dal sò paes; canche ghera amó diàoi e streghe ca ghe fava na gran pòra a tuc’ e la Cesa de alora la ghe fava crèder ca, i mòrc’, i sarìa vignù a sgrafignàrghe i pen, ntat ca i dormiva, a chil ca no ubidìva …a col de sora.



E ben! en de col tep lì, a Roncón, ghera na putèla ca la se ciamàva Lavinia; l’era na bèla putèla co i cavìn négher e lónch, ca ghe fava na gran trècia ‘ntorno al có. L’era na putèla sèmper trista; la vita no l’era stada miga masa trènda con de vèla. El so pupà e la soa mama, en po’ de tep emprùma i era né a copàrse, par nar a far en po’ de fen ale coste; i era né a dar su co la carga sala schena nde ‘n bort tof. Col an lì era vignù fò na gran suta no i öva segà pel de còrt. I göva doe vache e na cavrìna da mantignìr ca, senza da magnàr, le avrìa patìda la fam.
I Amistadi, ca i diséva che i era dij S-ciòp da Tagné, i göva na cà da mót, con de pré e gac' aca tèr a Val, apè a Luda, lì sala drìta ndal nar en Val de Bondón.
Lavinia, che l’era restada sola con de ‘n fradelìn de des e dódes agn, l’à dovù ‘mparàr ‘mprèsa a goarnàr, a segàr el fen, a mólger e a casaràr, a far lègna e foia, a tör fò el lodàm e a tignìr su la cà. Tute le domà, canche l’era amó nòt fonda, con de ‘n lum de cira ‘n mà, la ciapàva su e la nava tèr a Val a goarnàr; no la se fidàva a fermarse la déter a dormìr de sira en de col post lì, vèla sola, aca parchè, na nòt che ghera fò en gran temporal, l’öva sentù dai rumor strani, come ca i plangès vargùn : coschì l’era sta en laór c gheva fat ciapàr en bel mìgol de schechèo.
Canche le vache le à fat i vedelìn, la fava fadìga a starghe dre a tuc’ i sö mestér e l’era en mìgol desparàda ma… na domà…canche l’à ‘ndravèrt el casèt, la gà vist tèr la sprèsa frèsca sal spresùr, el botér apena fat, co la soa ciupèla en l’aqua frèda, la puina tacàda ià a sgociàr sal cigàgn, el paröl dal còt sal föch e tuc’ i mestér fac’. Vèla l’èi restada lì senza parole; la s’à domandà chil ca podrìa èser stà sì bravo da far tut e lasàrghe lì così concià ià. En la stala, le vache le era bèle ca molgiùde e goarnàde e aca lì, tut a post. La s’à vardà ‘ntorno e, l’unich sègn ca l’à vist l’ei stada na s-ciupìa en tèra, che la pareva cola de ‘n bèch; l’à scomenzà a avérghe en pò de pòra; ghè vignù en mente na storia ca ‘l gheva contà ‘l so pupà canche l’era amó picióla.
“ ‘Ndal bosch chì apè” – el göva dit el pupà – “ ghe vif déter i Salvanéi, ca i è i fiöi de Silvano, el dio dai bosch , dale sèlve, dij pré e dij cap. I è bravi e tranquij ma parmalos; dale olte i è aca despetós e no mìa miga ‘nrabiàrle. I te fa aca dij schèrz gna borc’ ma, en le not che la luna l’èi plena, i magna carn viva.. Co le soe gambe longhe da bèch, i fa ‘l gran viagiàr entorno senza ca nigùn ghe rive a vedérle e i vif, ensuniàndose de na bèla putèla che le basa; bórc’, co la barba ca par fil de fèr e spuzoléc’ coma ca i è, no ga n’è gna una ca vorìa darghe ‘n basìn.” - el finiva de contàrghe el sò pupà.
Oramai, tuc’ i dì, vers le zinch de domà, canche la 'ndrevéva la stala, la gatàva vache goarnàde, sprèsa, botér e puina fac’, i saron en dal paröl amó calc’ e…ste s-ciupìe chi e lì en la tèra umida ‘ntorno ala cà, ‘nsèma a n’odor de sólfer, de salvàdech e spuza da bèch; tuc' sté laór i ghe metéva tèr en bèl mìgol de angósa.
“...e, se 'l fus dalbón en Salvanèl, un de quij bon ca s'à mès en dal co de eidàrme? - ca 'l se sìe 'nnamorà de mì e ca 'l völe fàrmel capìr cosìta?..” L'idea, de na banda, la g'à fat piazér e dal'altra la g'à mès na pòra santìsima, a pensàr coma ca i è bórc' i Salvanéi ca 'l göva contà 'l so pupà.
“...e se 'l se presènta, có ghe dìghe?... e ...la sa le 'mmaginàva bèle lì dinàc'.
Tuc' ste pensér no i fava ca farghe vignìr, da na banda, pòra e da col'altra, aca na gran curiosità; ormai l'avrìa volù savér aca chil ca ghe nava par cà de nòt, a farghe i mestér sì ben.
Vèla e 'l sò fradelìn no i g'à dit gnènt a nigùn, no i gavarìa credù, fantasie de putéi, insùni...
Alora, vèi dó, i à decìs de fermàrse na nòt a dormìr tèr a Val, sala cà, sora la stala. Fò par el dì, i à fat en bus, na tana en dal mùcol dal fen e i ghe s'à cacià déter, col cör en gola e 'l flà sospés.
De sicùr no i à sarà öc' ; la putèla la s'èi pentìda pù de na olta, a pensàr al ris-cio ca i era dré che i coréva.
“... e se 'nvéze no 'l vignès – e se fu vargùn ca no se sa ben col ca i völ?... e, 'ntat, con de ste pensér ca ghe metéva en bèl spaghèt, è pasà ià en po' de ore dala nòt; le vache, 'nla stala desóta, le grimiàva e la cavra, ogni tat, la scorlàva 'l campanèl tacà al canavèt.
Tut en de n'àtim, Lavinia l'à sentù le vache che leva su 'n pen e che scoménza a magnàr e aca 'l föch ca s-ciopèta ndal casèt. La se gira vèrs el fradelìn ma vèl, el s'era ndromenzà coma 'n sas; alora la sèi sentùda amó pu sola. Adès se sentìva ben pulìto le sbolzàde dal lat en dal sedèl da mólger: sim – sum – sim – sum; l'era quasi na musica ca 'l paréva ca la le 'nvidèse a 'ndromanzàrse.
'Nvéze, l'èi vigùda fò pianìn dala sò tana ndal fen e bùtase su 'n tèra, su dré al bus dal fenèr, par podér vardàr su 'n la stala. L'à cacià su 'l co ma, ghera su tut scur e no la ghe rivàva a osmàr nagót.
Ma… tut en de 'n colp... s'à fat en silènzi ca no 'l paréva gna vìra: le vache e la cavra no le se moöva pù, ghera tut fermo coma se 'l mónt el fùse stà sospés par aria e, aca el cör de Lavinia, el pareva che no 'l batèse pù. Se i gavès cavà sanch no ga 'n saria vignù fò na gocia.
'Nla penombra l'öva 'ntravìst na sagoma ca è nada ià coma na saèta, en fùlmin, senza far nigùn rumor ; con de 'n sbàlz sol, la figùra la ghèi rivàda lì apè e, coma en lof che sbàia, la g'à fat 'n'urlo sal mus, che 'l g'à parèst na gran slèpa..... se te spetàve amó na sira, t'avrìa 'nsegnà co i sarón a far la cira!...
Defàt dopo, na scarica de luce blù, coma na fólgore, l'à travarsà la stala e Lavinia, stramortìda dala pòra, l'à vist el Salvanèl en tuta la soa figura: el mus ispido e spirtà, 'l pareva che l'avès ciapàda na gran delusión o 'n tradimét; l'era vestì, dala mèza vita ‘n su, pelós coma cavra e... i pen... doe gran ciate de bèch.
Coma che l'èi vignùda, la saèta l'èi a nada e ndal' aria è restà n'odor de sólfer e de rasa brusàda.
E' vignù de nöf tut normale, el Salvanèl no 'l s'à pù fat vif ma, da alóra, no ghè stà pù nigùn ca è stà bon, co i sarón a far la cira.

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La leggenda del Silvanello di “Val”

Nei paesi delle valli trentine, molte sono le leggende che, narrate, facevano stare con il fiato sospeso. I nonni, durante i lunghi “filò” invernali nelle stalle raccontavano, anche più volte, le stesse fiabe, con riferimento a luoghi e personaggi conosciuti, creando spasmodica attesa e una magica atmosfera.
Fra le tante, una sorprendeva sempre, vuoi perché era accaduto lì, vicino al paese, vuoi perché vi era implicata gente degli Amistadi “S-ciòp”, a quei tempi ancora molto conosciuta.

Molti, moltissimi anni fa, quando ancora non vi erano strade nelle nostre valli, ma solo sentieri, e la gente nasceva e moriva senza essere mai uscita dal proprio paese; quando ancora diavoli e streghe terrorizzavano la vita contadina, e i defunti familiari, a detta della Chiesa di allora, sarebbero potuti venire a graffiare le piante dei piedi dei parenti, mentre si trovavano a letto, qualora questi non avessero condotta una vita integerrima o non avessero ottemperato a tutto ciò che la religione imponeva loro…
In quel tempo a Roncone, nelle sperdute valli della “Judicaria Summa Laganensis”, viveva Lavinia, una bella fanciulla con lunghi capelli neri, che le formavano una stupenda treccia raccolta intorno al capo. Era una ragazza sempre triste; la vita non era stata tenera con lei. Il papà e la mamma, ancora molto giovani, erano morti, cadendo in un burrone in alta montagna, dove si erano recati a raccogliere fieno per le loro due mucche e per la capra, poiché la stagione siccitosa aveva bruciato il secondo raccolto di erba e le bestie, durante l’inverno, avrebbero rischiato la fame.
Dal paese, il bestiame era stato trasferito in località “Val”, in quota poco oltre l'imbocco della Val di Bondone, dove la famiglia possedeva un maso con prati e boschi.
Lavinia, rimasta sola con un fratellino dodicenne da allevare, dovette imparare presto a rigovernare il bestiame, a mungere, tagliare il fieno, procurare legna, fare burro e formaggio e tenere la casa. Ogni mattina, ancora a notte fonda, essa si recava dal paese al fienile di “Val” a governare le sue bestie, al lume di una candela di cera. Non si fidava a restare a dormire da sola in quel posto isolato, anche perché, certi rumori strani, come dei lamenti, che aveva uditi una notte di temporale, l’avevano parecchio spaventata.
Quando le mucche partorirono, le sue incombenze ad accudire alla stalla, a lavorare il latte, le prendevano tanto tempo e impegno. Era disperata, ma…una mattina, aprendo la cascina, si accorse che qualcuno era stato lì.…vide la caldaia del latte con i sieri sopra il fuoco appena spento, il formaggio sul tavolaccio e il burro nell’acqua fresca, la ricotta messa a scolare sotto al camino. Senza parole, si chiese chi potesse essere stato così gentile e bravo da lasciare tutto a posto, pulito, ordinato.
Le mucche munte e rigovernate, i vitellini nutriti, la stalla in ordine e pulizia impeccabili. Lavinia notò unicamente un’impronta di piede che pareva un grosso zoccolo di caprone e questo la preoccupò molto. Il pensiero corse ad una storia che papà le aveva raccontato molto tempo prima.
“Nel bosco vicino”, le disse il babbo, “vivono i ‘Salvanéi’, i Silvanelli, figli di Silvano, il dio delle selve e della campagna. Sono bravi e tranquilli ma molto bizzosi e suscettibili; talvolta sono dispettosi e non bisogna irritarli; combinano scherzi spiritosi ma, nelle notti di luna piena è meglio girare loro alla larga, poiché si nutrono di carne viva e non vanno tanto per il sottile con nessuno. Con le loro lunghe gambe da capra, percorrono grandi distanze senza essere notati e vivono, sognando il bacio di una qualche fanciulla. Brutti, barbuti, irsuti e puzzolenti come sono, nessuna vorrebbe baciarli”, concludeva ridendo il papà.
Ormai ogni giorno la storia si ripeteva; puntualmente, alle cinque del mattino, lei trovava le mucche munte, formaggio e burro lavorati di fresco, i sieri ancora caldi nella caldaia e queste grandi impronte, qua e là nella terra umida, intorno al cascinale e… uno strano odore misto di zolfo e di selvatico, assieme pungente e inquietante.
“E se fosse proprio il Silvanello? Uno di quelli buoni che ha deciso di aiutarmi? Che si sia invaghito di me e me lo voglia dimostrare in questo modo?” L’idea la lusingò ma la terrorizzò allo stesso tempo, pensando a quanto brutti erano i Silvanelli descrittigli dal padre. “Se si presenta che gli dico?” E immaginò subito due piedi di caprone, una barba ispida e un ghigno ansioso di esternarle il proprio ardore amoroso. Tutte queste considerazioni non fecero che accrescere in lei timori e curiosità.Voleva scoprire chi era colui che, a notte fonda, si occupava delle sue mucche e dei suoi affanni.
Non ne parlò con anima viva, non le avrebbero creduto, fantasie di ragazza, sogni.
Decise allora, complice il fratellino, di fermarsi una notte a dormire sul fienile soprastante la stalla. Fecero insieme una tana dentro al mucchio del fieno e vi si acquattarono, con il cuore in gola e il fiato sospeso. Di sicuro non chiusero occhio; lei più volte pentendosi del guaio nel quale si erano cacciati.
“E se stanotte non venisse? e, se si trattasse invece di qualche angelo delle tenebre che si diverte a spese di due poveri ragazzi indifesi?” Con queste spaventose fantasticherie trascorsero alcune ore della notte. Le mucche nella sottostante stalla ruminavano tranquille e la capra scuoteva, di tanto in tanto, il campanello agganciato alla cannabula di legno appesa al collo.
Ad un certo punto, Lavinia udì le mucche alzarsi in piedi ed iniziare a nutrirsi alla mangiatoia e il fuoco crepitare nel focolare. Si girò verso il fratellino ma, questi si era pesantemente addormentato e lei si sentì ancora più sola. Adesso distingueva chiaramente il rumore del latte munto cadere a lunghi spruzzi nell’apposito secchio in legno, con un soffice tonfo smorzato nella schiuma, un sim! sum! sim! sum! cadenzato come una musica, la quale sembrava la invitasse a lasciarsi andare ad un dolce, ipnotico sonno.
Non senza sforzo si alzò e uscì dal tunnel di fieno, avvicinandosi cautamente alla feritoia sul pavimento, da dove, ogni giorno, essa calava la razione di fieno occorrente nella sottostante stalla, e sdraiata sul pavimento, infilò la testa nella feritoia tentando, nell’oscurità, di scoprire il segreto di quelle misteriose visite notturne.
Tutt’ad un tratto si fece un silenzio irreale: le bestie non si muovevano più, tutto era fermo come sospeso e anche il cuore di Lavinia sembrava non battere più. Nella penombra intravvide una figura velocissima che, senza alcun rumore, si avvicinò alla fessura dalla quale essa osservava ciò che stava accadendo nella stalla. Nel silenzio allucinante, si levò verso di lei un urlo, un ululato, che la colpì come uno schiaffo in pieno viso: “Se tu avessi atteso ancora una sera, ti avrei insegnato con i sieri a far la cera”.
A quel punto la stalla si illuminò con una lama di luce bluastra e Lavinia, paralizzata dal terrore, vide il “Salvanèl” in tutta la sua figura: la faccia ispida, esprimeva una grande delusione, come se avesse subito un tradimento; vide, dalla pancia in giu, il suo abito di pelo di capra e…i piedi… due possenti zampe di caprone.
Nello stesso istante la luce accecante scomparve e nell’aria rimase un vago odore di zolfo e di resina bruciata. Tutto tornò alla normalità ma, da allora nessuno più riuscì a scoprire la formula con la quale fare la cera, con i sieri del latte.




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