giovedì 1 marzo 2007

Crescita e decrescita sostenibili, sono solo slogan?

Il disagio psicologico che, sia singolarmente sia collettivamente avvertiamo, di fronte alla ormai fittizia crescita economica ed il malessere che si intrufola nella società, sembrano fare la parodia verdiana del Barbiere di Siviglia … la calunnia è un venticello, una arietta, assai gentile, che invisibile e sottile, lentamente lentamente…. e pongono interrogativi ai quali non è agevole rispondere. È ormai chiaro che di sostenibile, se la crescita è quella attualmente nei programmi dei grandi, non rimane più molto.

Gli spazi sempre più ridotti possono agevolare solo chi, dei destini di tante nazioni, non se ne cura; ma è una sostenibilità a senso unico e, anche per costoro, non sarà eterna. Se pensiamo che, già nel 1999, in un rapporto sullo sviluppo umano, i tre miliardari in testa alla classifica mondiale detenevano, da soli, ricchezze superiori a tutti i paesi sottosviluppati, con abitanti pari a oltre seicento milioni di persone, qualcosa di vergognoso che non gira, non funziona, esiste. Gli stessi denunciati fallimenti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale sono un segnale eloquente dei limiti entro i quali, parlare di crescita sostenibile è, anche nel breve periodo, pura utopia.
E allora dovremo affrontare una decrescita: questo è termine spaventoso, la cui idea atterrisce quanto e più del disagio psicologico sopra accennato. Henry D. Thoreau, gia verso il 1850 avvertiva: “Ciascuno di noi è ricco in proporzione al numero delle cose di cui può fare a meno “.
In verità, il tema “decrescita” è affrontato già, in qualche modo, a livello di diversi Paesi; si parla di decrescita non negativa, conviviale, condivisa. Siamo agli albori di una presa di coscienza che troverà però delle resistenze fortissime. È una empasse culturale. La apprensione che, con insistenza è denunciata da uomini di scienza, premi Nobel, ambientalisti di tutto il mondo circa l’enorme incognita dell’inquinamento e del surriscaldamento atmosferico, le diatribe che la questione suscita negli Stati, nelle città, anche le più piccole ormai, come a livello di amministrazioni comunali, è allarme che stenta ad assumere valenza di presa di coscienza globale, e qui si parla di insostenibilià ecologica. Nei soli Stati Uniti, il consumo delle risorse degli ecosistemi di terra e acqua è cinque volte superiore alla disponibilità media del globo; per quanto ancora la biosfera, sommando i consumi di U.S.A., Europa, Asia e Sud del mondo, riuscirà a fare fronte a tali sprechi? Alle riunioni organizzate sul tema, alcuni Stati addirittura non partecipano, pur essendo i più potenti ed i maggiori inquinatori, Stati per i quali pare esistere un non condivisibile timore reverenziale solo a citarli. Già vent’anni fa, il responsabile della Commissione Mondiale per l’Ambiente ed ex premier norvegese G. Harlem Brundtlamnd lanciava uno slogan mai raccolto: “crescita sostenibile”; il significato era: non fermiamo il progresso ma conciliamolo con le risorse globali ed i doveri verso le future generazioni. Ora è concetto che suona inattuale di fronte ad una situazione disperante; prima che si superino gli interessi politici ed economici globali, occorrerà giusto il tempo dopo del quale sarà già troppo tardi: Catastrofismo? no, realtà evidente , che si esplica nello sconvolgimento delle stagioni, nello scioglimento dei ghiacciai, nelle torride stagioni, nelle invivibili città, nei disastrosi ‘tornados’, nell’avanzare della desertificazione, negli sconvolgimenti generati dalle sperimentazioni atomiche, nella scomparsa di tante specie animali e vegetali, nelle affezioni di nuova generazione per l’uomo e se ne potrebbero aggiungere altri. S’è continuato a inquinare, a devastare foreste e atmosfera un po’ ovunque. Mentre l’uomo sta lentamente condannando se stesso, poiché di questo si tratta, chi di dovere dovrà pure percepire finalmente l’altissimo grado di pericolosità raggiunto ed assumersi, per tali problematiche, le immani responsabilità che la politica ha nei riguardi delle generazioni a venire. Che queste non abbiano a maledirci per la nostra ignoranza, avidità e avventatezza.

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